Hortus Incomptus | divagazioni
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Giardinaggio e no

Un bel libro di Umberto Pasti cerca di discriminare ciò che è giardino da ciò che giardino non è (Giardini e no). Anche col giardinaggio si può tentare un’analoga cernita. Sono sicuro, per esempio, che non è giardinaggio quello che fa un mio vicino, il quale ogni tre giorni s’incaponisce su un fazzolettino di prato verde (in realtà giallognolo) antistante casa sua che a malapena si lascia percorrere in un senso e nell’altro dalla falciatrice, che sarà a farla grande un quarto o quinto della lunghezza del lato. Passa e ripassa, passa e ripassa. Non deve restare filo d’erba a svettare sopra il pelo della superficie. Una volta riposto il macchinario infernale, si passa a rifinire i bordi decapitando a forbiciate qualsiasi fogliolina che osi tralignare oltre il suo. Di giardinaggio, qui, non c’è neppure l’ombra. C’è invece caparbia ostilità verso la natura, intesa come forza con cui si deve ingaggiare una lotta volta a rintuzzarne l’esuberanza, a rimetterla nei ranghi. Avere a tal punto in odio la natura è agli antipodi del giardinaggio. Che è – sì – intervento umano sulla natura, ma non rancoroso e guerrafondaio: al più, fermo o dirigista.

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… rings umher eine unaussprechliche Schönheit der Natur.

Come il Werther tutto commozione e palpiti del cuore anch’io vorrei zum Marienkäfer werden per perdermi nella bellezza sorgiva della primavera, diese Jahrszeit der Jugend… I prati sono tappeti persiani di fiori, tutti pennellati del bianco delle pratoline, del celeste delle veroniche, del giallo dei tarassachi. Verrebbe voglia di rotolarcisi, incuranti della terra, dell’allergia, degl’insetti.

lobularia:alisso e spontanee

giungla

fratino

speronella

narcisi bianchi

violacciocche

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Fumaggini

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Dopo un virulento attacco di mosca bianca, ecco apparire una livrea maculata di fumaggini…

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Fior di carta (straw flower). In botanica: Helichrysum monstruosumXerochrysum bracteatum (o via sinonimeggiando)

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Mi piacciono i rami flessuosi della gaura: pendono lassi dal terrazzo e porgono al vento le farfalle bianche dei loro fiori tremuli.

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Un’ape ci volge le terga, ma è tanto bellina che la perdoniamo.

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Tra draghi e zanzare

Esco in giardino armato di macchinetta, a caccia di angoli fotogenici. La luce non è delle migliori: è una delle tante giornate spente di primo autunno. Vinco la ripulsa che mi assale all’idea di calpestare l’argilla intrisa d’acqua. Smuovendo le foglie suscito nugoli di zanzare assatanate. Mi pungono le nocche, le giunture, i padiglioni delle orecchie. Già ero accidioso d’umore, adesso ho una gran voglia di battere in ritirata. Poi vedo i miei fiori, come in trionfo, e ci ripenso.

Le bocche di leone e altre annuali si sono ridestate dall’inerzia stuporosa che ne aveva fiaccato lo sviluppo nelle torride settimane d’estate. Vegetano e prosperano vigorose come non mai. Solo nei margini più gremiti di piante, un po’ ombrosi e già troppo umidi, sono sfigurate dalla ruggine o incipriate di mal bianco. Fauci di drago multicolori (snapdragons) si spalancano in cerca di un sole che latita e accolgono le visite alate dei pronubi. Le cosmee nane, nell’orgoglio liberatorio di non esser sgraziate e precarie come le cugine, si producono in un frettoloso, esplosivo girotondo  di corolle. L’alisso bianco spande i suoi densi sentori di miele.

Ma queste sono solo comprimarie. Le vere protagoniste dell’autunno sono le perenni piantate ad hoc per un ultimo atto spettacolare prima dei geli. Settembrini, anemoni, crisantemi. Ne ho molti e ancora più ne vorrei (ne vorrò).

E poi ci sono piante un po’ confuse, che han come perso la trebisonda, e approfittano del tepore di questo scorcio ottobrino per anticipare la primavera: soprattutto i papaveri della California, ormai ubiquamente infestanti in tutto il lato sud del giardino; allungano incerti i piccoli turbanti di seta delle loro corolle monocrome color zucca, e non li svolgono se non quando il sole si affaccia a concedersi.

Faccio un giretto di perlustrazione – in testa la lista delle incombenze si aggiorna e allunga – e scatto qualche foto con scarsa convinzione. Torno dentro, insoddisfatto; la luce è infelice, gli scatti sono poca cosa. Mi duole dappertutto per le pose da contorsionista che ho tenuto nella vana speranza che l’aggeggio digitale mettesse a fuoco quel che volevo io.

Pubblico lo stesso qualche immagine, anche a mo’ di cronistoria di quest’autunno mite dalle piogge misurate.

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mix due

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Autunno: tempo di settembrini e anemoni giapponesi

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L’anno volge al termine. Il gelo si appropinqua, inesorabile, ma è lontano ancora. Circola in giardino un’atmosfera di allegria caduca. Non c’è l’ebbrezza frenetica della prima estate, preludio di pienezza; si vive una stagione più sobria, come una primavera in sordina. Ci si prepara alla desolazione delle brume. Allietano questo trapasso intriso di malinconia i settembrini col loro ampio spettro rosa, viola, magenta. Risorgono dai cartocci di foglie stremate dal caldo anche le anemoni. Qua e là sbucano da anfratti e cantoni gli squilli di tromba degli zafferanastri. È un variopinto addio alla luce estiva, struggente e inconsolabile come tutti gli addii, ma anche pacato, come cosa che angustia ma si è pronti ad accettare perché ineluttabile. Ecco che mi guardo attorno e con dentro un sorriso olimpico mi crogiolo in quest’ambigua gioia mesta.

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Idiosincrasie e aspidistre

In fatto di piante, come in qualsiasi altro àmbito umano, esistono simpatie e antipatie. Talvolta sono blande, talaltra radicali. Spesso, oltre a essere viscerale, una particolare avversione è anche immotivata. Un capriccio idiosincratico. Eppure, tutti cerchiamo di giustificare le nostre inclinazioni e repulsioni, di razionalizzarle: è normale. Succede anche ai grandi esperti di giardinaggio: non dicono solo “la tal pianta per me è orribile” o “adoro questa pianta e basta”, ma argomentano, esemplificano, illustrano.

In fatto d’idiosincrasie, io stesso non mi sottraggo alla tendenza generale. Ma mi pare di trovarmi in buona compagnia. Ricordo (e mentre scrivo vado un attimo a recuperare la Garzantina) che il grande Pizzetti dà alle povere cosmee una stroncatura implacabile, seppur ben ragionata e circostanziata.

Ecco qualche stralcio della requisitoria (il maschile è dovuto al termine “cosmos”, preferito dal Pizzetti a “cosmea”): arruffatissimo sovrano degli ortiun miscuglio di colori spesso bruttodue fiori […] da portare in chiesa o al camposantoil suo fogliame […] non è dei più belliè una di quelle piante che il primo temporale massacrabasta una tempesta e della pianta non rimane che un ammasso di verde calpestato, di pallidi rovesci di foglie, di capolini mutilati […].

Lo bello stilo del Pizzetti è tanto cristallino e raffinato che non gli si può che perdonare questa critica sferzante, quantunque le cosmee, allegre e inoffensive, meriterebbero una degna difesa, sia pure d’ufficio (che però vi risparmio). Sui singoli punti enucleati dal pubblico ministero non c’è granché da obiettare, ma sembra che il primo motore sia un’avversione di fondo, epidermica e irrazionale, per la singola pianta, al punto che forse viene inclusa solo per dovere di completezza enciclopedica.

Mi sono da poco imbattuto anche in un esempio d’Oltralpe. Il fidatissimo, intramontabile, immarcescibile dottor Hessayon, col suo taglio pragmatico e stile asciutto, boccia senza appello un grande classico come l’ibisco (quello più facile, il siriaco). Nel manualetto The Flowering Shrub Expert, leggo che it has a number of fussy needs and one or two drawbacks. The soil must be free-draining and both full sun and protection from cold winds are essential. In chiusa di paragrafo pare quasi di sentire il dotto sospirare di commiserazione: Do have patience – it takes some time to establish. Insomma, succinto e tranchant. Chissà se tutta questa fussiness è vera almeno in clima britannico… a me non risulta, anzi: mi pare una pianta robusta e affidabile. I requisiti elencati da Hessayon si potrebbero estendere al 70% degli arbusti, che io sappia. Ma si sa: non è cieco solo l’amore, lo è pure l’odio.

Ribadisco: anch’io ho una repulsione per svariate piante. Per fortuna, molte volte mi càpita di cambiare parere. Alcune idiosincrasie non sono irreversibili. Per esempio, credevo di odiare in modo indiscriminato tutte le piante verdi e quelle da appartamento. Quando sono arrivato qui, più di due anni fa, ho ereditato uno o due vasi sbrecciati con dentro qualche foglia sparuta di aspidistra. Stavo per buttare tutto, quando invece, in uno slancio di carità, ho deciso altrimenti. Ebbene, a distanza di più di due anni, nei loro vasi capienti all’ombra luminosa, quelle piante malridotte sono diventate foreste irte di foglie verdissime, ora cupe e impolverate (le più vecchie) ora smeraldine e brillanti (quelle appena messe). Hanno persino fiorito, raso terra; il fiore è una specie di monstrum bianco-violaceo.

Queste piante ormai le ho rivalutate e prese in simpatia. Non m’importa che se ne sia abusato, una volta, mettendole in tutti gli androni, le sagrestie, gli oratori. Anzi, le trovo ancora più belle per questa carriera dimessa ma lunga, di piante ancillari e al contempo indispensabili. Che altra pianta mettere in un ingresso vetrato frigido e tetro, o tenere pronta alla bisogna per ornare l’altare in un angolo del chiostro o della cappella? Solo loro: le piante del prevosto o della perpetua, appunto.

Coltivarle è facilissimo. Basta non metterle in pieno sole (le foglie incartapecoriscono, al sole) e innaffiarle… quando ci se ne ricorda. A voler essere bravi (avendo tanto buon tempo), si possono lucidare le foglie. Io l’ho fatto solo una volta, con una pezza umida. Sono venute belle lustre, la quintessenza della viridità.

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Blu elettrico

Convolvulus tricolor

Dopo un provvidenziale rovescio, l’aria si è sgravata dell’afa, il cielo è ben ripulito e tutto brilla di un colore saturo e vivido. Sembra un mondo diverso, quasi il frutto del lavoro di un bravo colorista. Mentre mi aggiro in giardino, in giornate come questa, mi sovviene ogni volta l’incipit di Mrs DallowayAnd then, thought Clarissa Dalloway, what a morning—fresh as if issued to children on a beach. Vorrei tanto rileggere tutto il romanzo, chissà se ne avrò mai il tempo…   

In giornate così terse, anche l’erba appare più verde. Non è solo perché non c’è più l’umidità a filtrare ogni cosa con un effetto foschia o prospettiva aerea, ma anche perché basta un acquazzone a sferzare le piante a nuova vita, rimettendovi in circolo la linfa e scuotendole dal torpore letargico dei giorni più roventi e afosi.

Tra i vari colori squillanti che attirano il mio sguardo – il rosa di Lagerstroemia indica, il fucsia dei settembrini in prefioritura, il giallo pallido di una bocca di leone – mi coglie di sorpresa il blu elettrico di un gruppuscolo di Convolvulus tricolor. Un colore insolito, quasi artificiale, intensificato dal contrappunto del giallo e del bianco. Noi giardinieri si tende a essere approssimativi in fatto di colori: per la precisione, questi fiori virano un po’ al viola, non sono blu puro. Peraltro credo che il blu puro sia una chimera, nel mondo vegetale. I miei convolvoli fino a prima della pioggia vivacchiavano per miracolo in un angolo assolato, ammorbati dal solito ragnetto rosso e ancora un po’ contrariati per il trapianto… Quanto può un temporale estivo!

Tornando dalla facile esaltazione alla prosaica realtà, devo constatare con allarme che con l’acqua c’è stata anche una recrudescenza di Armillari(ell)a mellea: sfoggio di carpofori (alias “funghi”) e morte di un malvone nei pressi del ceppo marcescente della robinia abbattuta due anni fa. Ovviamente sto drammatizzando: le rizomorfe si propagano lente lente (sia pure inesorabili), quindi l’efflorescenza di funghi, per quanto coreografica e inquietante, è solo il segno estremo e visibile di una progressione che dura da almeno due anni. Leggo con preoccupazione che, dopo il ritiro dal mercato dell’Armillatox®, non esistono mezzi professionali od hobbistici per combattere Armillaria. Occorre scavare, eliminare il materiale infetto (c’est à dire tutto l’apparato radicale: si fa prima a mettere una bomba…), lasciare lo scavo respirare per mesi, non ripiantare specie sensibili (potenzialmente, tutte) per qualche anno, curare poi il drenaggio e micorrizare i futuri impianti. Tre quarti di queste misure sono impraticabili o richiedono fatiche erculee; fortuna che non ho un vigneto o frutteto: lì sì che sarebbero guai seri…

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Carducciando un po’…

Mentre lavoricchio in giardino mi sovvengono brani e frammenti. Stamane, chissà per quale associazione, mentre innaffiavo mi ronzava in testa il famigerato T’amo-pio-bove di ginnasiale memoria: forse la mattinata placida, coi cani irosi del vicino ridotti a più miti consigli dall’afa che stronca.

 

Nessun bove nel mio microcosmo, né gallina o mulo o porcellino. Solo fauna selvatica e financo selvaggia, benefica o molesta. Dopo aver acquato mi son messo un po’ a caccia di cavallette, novello Apollo parnópios. Sono ancora piccole, di almeno tre specie diverse, di cui solo due ho identificato; oltre a questo, le differenzia pure il colore, pur all’interno della stessa specie: per esempio, la classica cavalletta italica è ora verdognola ora marroncina, da piccola, un po’ come le mantidi (resto aperto a correzioni e bacchettamenti da parte di eventuali entomologi tra i miei molto meno che venticinque lettori). Le locuste hanno una fame atavica, funesta, proverbiale. Più in basso allego la foto di una foglia di malvone dopo il fiero pasto.

 

Catturarle non è facile. Occorre, più che velocità, tattica. Le si deve stringere tra le dita e la foglia o il fusto cui sono poggiate, in modo che non abbiano via di fuga. Finché son piccine è agevole, poi crescendo metton su cosce e polpacci temibili, e se le si stringe tra le mani si divincolano con veemenza facendo scattare a più non posso le zampe, che segano e tagliano la pelle come lame. Un’esperienza da non ritentare.

 

Una volta che le si ha tra le dita, è necessario portare a termine l’impresa. Le si fa scorrere senza premere per non fare frittate immonde. A quel punto le si posa sull’impiantito tenendole per un lembo col dito e giù di ciabatte per farne marmellata. A volte sono più ardito o collerico e allora le spremo tra le dita. Poi corro a lavarmi le mani: leggevo da qualche parte che possono veicolare la salmonellosi e anche chi le mangia (sic) lo fa previa cottura (ora sì che mi sento tranquillo).

 

Tornando al bove, mi è saltato l’uzzolo di fare il verso al Carducci; ne è venuta una poesiola grottesca. Eccola qui:

La locusta

Locusta, io t’odio; e ributtante un senso

Di ripulsa e schifo al cor m’infondi,

O che vorace come lupa scempio

Fai e qual tabe sulle piante incombi,

O che scattando ben per tempo

L’agil man dell’ortolano scampi:

Ei ti maledice e scaccia, ma tu con ampi

Balzi e accorti occhi ti salvi.

E col tuo defecar atro e turpe,

Col tuo mai sazio crapular di ganasce,

Lo fai della natura odioso, che non fu mai.

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Piove

Il pleure dans mon cœur
Comme il pleut sur la ville;
Quelle est cette langueur
Qui pénètre mon cœur? (Verlaine)

Il giardiniere (l’uomo?) non è mai contento. Se non piove, perché non piove. Se piove, perché piove.

Ho invocato la pioggia per settimane, che adesso mi aduggia e m’inquieta. Piove ormai quasi tutti i giorni da giorni. Rose e peonie pendono grasse e sguaiate come maschere sfatte. Facelie e coriandoli svettavano al cielo ma adesso la pioggia li preme e li alletta pesanti per terra. Arrivano spore di funghi e si posano e aspettano; se ne stanno come in erba l’angue in agguato; al primo sole sarà tutto un fiorire di chiazze e di macchie.

Tolgo dai vasi in balcone le violacciocche, scomposte, sparute, sfiorite. Ne viene un mazzetto, fâné. Mi par degno di foto, così lo immortalo. S’intona col grigio di fuori, di dentro, di tutto. Non mi scuce un sorriso ma solo mestizia. Invocherò adesso il sole, come ho invocato la pioggia. Che tronchi la litania balbuziente di questa tristezza.

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A would-be cottage garden?

How many kinds of sweet flowers grow

In an English country garden?

We’ll tell you now of some that we know,

Those we miss you’ll surely pardon.

Daffodils, heart’s ease and flox,

Meadowsweet and lady smocks,

Gentian, lupine and tall hollyhocks,

Roses, foxgloves, snowdrops, blue forget-me-nots.

In an English country garden… (canzone tradizionale)

Malvarose (hollyhocks), garofani, violacciocche, rose, fanciullacce (love-in-a-mist), giuliette (Canterbury bells)… e quest’anno ho perfino le digitali (foxgloves)! Gl’Inglesi hanno tutta la mia ammirazione; cerco d’imitarli, ma c’è una cosa che qui non abbiamo: il clima! Da noi purtroppo non piove anche per quaranta giorni filati… Tornando al cottage garden, mi riprometto di seminare anche Hesperis matronalis, che non può certo mancare in un old-fashioned garden.

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Nigella damascena, vulgo fanciullaccia. Nata in una fessura.

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Peonia bianca. Merita un anno di attesa…

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Digitali da seme (Chiltern seeds).

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Mi piacciono ma non so che cosa siano, purtroppo…

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Prime roselline.

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Achillea di tra i papaveri.

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Soliti, immancabili garofanini.

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Ancora loro. Che profumo!

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Bocche di leone che occhieggiano dalla ringhiera. Fiori dal cemento, dalle crepe, dai posti più impensati. Una metafora potente, che ci dà speranza per i gretti, i piccini, gl’ipocriti che abbondanti ci circondano… Possono spaccarsi e fiorire anche le più granitiche anime di pietra.

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Un boschetto di garofani tra la verzura.

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Rigogliosa primavera

Posso dirmi abbastanza soddisfatto di quel che son riuscito a fare per il giardino. Tutto sommato, non è così male. Certo, ci sarebbero ancora infinite modifiche da apportare, ma mi piace anche centellinarmi gl’impegni su tempi lunghi, per avere sempre un progetto in cantiere, una speranza in serbo. Poi, si sa, se si hanno occhi per vedere, in un giardino come in una casa, non si può mai dire di aver finito. Ed è questo uno dei motivi che mi fanno amare il giardinaggio: mi sento come “trasportato in avanti”, sostenuto nello scorrere del tempo da un’ininterrotta progettualità. Vado a letto la sera enumerando mentalmente i lavori  in sospeso e mi addormento col sonno dei giusti sapendo di aver così tanto da fare e dare. Se mi aggredisce l’apatia o lo spleen, come a tutti almeno a volte succede, non ho che da guardarmi attorno per ritrovare la spinta ad agire, accumulando una stanchezza fisica che aiuta a dissipare le nebbie mentali o spirituali. In fondo, è una manifestazione del concetto di cura, che non può mai venir meno finché c’è vita. Può suonare blasfemo, ma è un po’ come l’amore parentale: cessa solo quando intercorre la separazione ultima.

Passando alla prosaica realtà…

Nel lato est il rosmarino, liberato dall’ombra molesta di un alloro fuori misura infestato dalla cocciniglia, ha ripreso a fiorire allegramente. La bordura di settembrini e rose che ho in mente per il confine è ancora in fieri: i settembrini li ho in parte comprati, in parte ottenuti da divisione dei cespi di piante esistenti; le rose da bordura, scelte tra quelle robuste e shade tolerant, le pianterò quando avrò tempo e denaro, in ogni caso dopo che gli organismi del terreno avranno un po’ degradato gli essudati dell’alloro e di alcuni vecchi cespugli di rose che ho espiantato. Infatti, sotto l’alloro non cresce proprio nulla per un bel raggio, mentre dove c’erano le rose non c’è questo problema, ma occorre comunque evitare il rischio di rigetto che si presenta talora al trapianto di una rosa laddove ne era vissuta un’altra. Per ora nelle aiuole che accoglieranno, finanze permettendo, le rose, ho seminato un miscuglio tipo sovescio, con molte piante mellifere. L’aiuola delle bocche di leone, stremate da un’ultima virulenta fiammata di ruggine (Puccinia antirrhini) lo scorso ottobre, è sparita, soppiantata da crisantemi che ho diviso. Le giuseppine ch’erano sotto l’alloro ora sono offese dal sole diretto e converrà trapiantarle (credo in vasi, da aggiungere nelle zone ombrose dove già ne ho diverse). Sempre a oriente, l’aiuola disordinata in cui crescevano Physalis alkekengi, peonie, Arum dracunculus, una rosa stentata, violette e molte erbacce è diventata un angolo ordinato con giuliette, settembrini, gigli di Sant’Antonio. Qua e là spuntano in ogni caso speronelle e fanciullacce (Nigella damascena), che devo far attenzione a non eliminare col diserbo (manuale). I gigli sono preda della criocera, manco a dirlo, ma per ora mi sto arrangiando con la lotta diretta (leggasi: stritolamento delle bestiole laccate di rosso tra le dita, con gran spargimento di sughi scarlatti). La magnolia non c’è più, sicché c’è più luce e spazio radicale per l’ibisco bianco, la deutzia, il gruppettino di lillà bianchi. Sempre lungo il lato est, si nota un attacco di ruggine alle pervinche, che fioriscono lo stesso. Nell’angolo in ombra: menta, melissa, colombine, prezzemolo che sale a seme. Lungo la casa, dove vorrei un giorno creare una bordura di ortensie, rispuntano le calle semideistrutte dal gelo, fiorisce Iberis sempervirens (mentre I. semperflorens è al termine), accumulano risorse per il futuro giacinti e narcisi, si apprestano a fiorire rose e garofanini dei poeti, oltre a un mare di giuliette (avrò esagerato?). C’è poi la zona delle peonie. In autunno le ho concimate con guano e cenere. Per carità, sarebbe stato meglio usare le scorie K (ex scorie Thomas), ma non disponendone ho cercato qualcosa che avesse buona dotazione di fosforo (per le radici) e potassio (per i fiori). Chissà…

C’è poi il lato sud, sul davanti. Quest’inverno avevo vissuto un piccolo lutto perché questo fazzoletto – dove l’anno scorso erano fioriti fiordalisi, papaveri, garofani, achillee, margherite, coreossidi e millanta altre specie, che si erano riseminati abbondantemente – per colpa di una perdita ha dovuto subire uno scavo con un escavatore meccanico che ha distrutto tutto. Temevo un deserto, quest’anno, ma la zona si è ripopolata velocemente di papaveri della California: sono nati a centinaia, fitti fitti, e non ho avuto cuore di diradarli. L’effetto sarà meno variegato e c’è il rischio che le piante si ammalino, così ravvicinate: vedremo! Sempre sul davanti, sono in fiore le facelie e uno o due giaggioli del tipo Iris pallida dalmatica, solo in parte scampati allo scavo, e forse ancora troppo deboli per una degna e ricca fioritura. Profumo sottile e dolce.

Il lato ovest è massacrato da un’epidemia feroce di ruggine delle malvacee. Puccinia malvacearum: famigerata compagna delle malvarose come la macchia nera lo è della rosa. L’anno scorso non aveva fatto notare la sua presenza e i miei malvoni, nati da sé da semi portati dal vento, erano fioriti belli sani senza ruggine persino a mezz’ombra. Quest’anno, invece… un disastro. Si fa presto a dire: eliminate le foglie colpite; da me non ci sono in pratica foglie indenni. Eppure, ho scelto di non intervenire, perché gli steli fiorali si stanno già preparando e sembrano molto grandi e pieni. In ogni caso, a fine stagione eliminerò tutte le piante e trapianterò – se l’avrò seminata – la cugina rust resistantAlthaea (o Alcea: solito guazzabuglio botanico-tassonomico) ficifolia, accontentandomi dei suoi fiori più semplici e dei colori meno attraenti. Stessa cosa farò per le bocche di leone, vittime della ruggine pure loro, sostituendole con piantine di una varietà resistente che ho già seminato.

Come sono prolisso! Tra l’altro sembra che il giardino sia enorme, mentre è davvero minuscolo!

Qui di séguito qualche foto.

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Petunia (Petunia pendula) nata da sé in un interstizio di fronte a casa, davanti al cancello. Già in fiore perché spuntata a settembre e miracolosamente sopravvissuta al gelo!

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Eccole, le pustole subfoliari della malefica crittogama: gonfie, turgide, ben pasciute malgrado la mia lotta con mezzi anodini (propoli, equiseto, rameici).

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Diserbare a mano: condanna o ascesi?

Ecco le mie violacciocche superstiti (sono pedante e scrivo la parola con due -cc-, come mi piacerebbe che la scrivessero anche gli altri; ma è un po’ come “caffellatte” e “sopralluogo”: non c’è verso di vederli scritti correttamente, anche da persone ben istruite…).

Tornando al giardinaggio, devo dire che i colori delle violacciocche sopravvissute mi piacciono, anche se le piante sono malridotte dopo i miei tentativi di salvarle da una crittogama o dall’asfissia radicale, togliendo tutte le foglie ingiallite o marce, ossia la maggior parte…

Oggi ho dedicato molto tempo a diserbare, a mano, lentamente. Non piove da un bel po’, ma alcune piante “infestanti” sono turgide e lussureggianti ugualmente. Ho tolto, in modo mirato, solo tre specie, da me già in pieno vigore: billeri (Cardamine hirsuta), occhietti della Madonna (Veronica sp.), centocchio comune (Stellaria media). Gli occhietti della Madonna sono molto belli quando formano folti cuscini, ma per apprezzarne i fiorellini azzurri occorre chinarsi o aguzzare la vista. Il centocchio produce fiorellini bianchi insignificanti; è commestibile, al pari delle altre citate, a quanto ne so, e se ne può fare una vellutata, ma da altre fonti desumo che va consumato con cautela per il contenuto di saponine. Forse è un po’ come Clematis vitalba, per cui vale la regola: poca, giovane, non da sola. Nel senso che è bene consumarla in piccole quantità, scegliendo solo getti giovani e mescolandola ad altre erbe. In ogni caso, sono molto diffidente e cauto, e in genere non raccolgo nulla, nemmeno se sono abbastanza certo dell’identità della pianta; l’unica erba che raccolgo e uso personalmente è il tarassaco: è difficile sbagliarsi e per di più è del tutto innocua, dato che gli unici effetti un po’ fastidiosi, se se ne abusa, sono quelli blandamente lassativi e diuretici.

Trovo davvero rilassante e rigenerante stare chino a togliere l’erbaccia. Per me la quintessenza dello zen o dello yoga. Si sta concentrati ma calmi a reiterare lo stesso gesto, ed è inevitabile che tutti gli altri pensieri inutili o ossessivi si dileguino, perché serve tutta la propria presenza mentale per strappare selettivamente solo le piante infestanti. Chissà se Tich Nath Han lo include tra le attività da fare con la massima presenza mentale per esercitarsi nella pratica della consapevolezza…

Insomma, un ricorso moderato al diserbo è senz’altro una forma di ascesi (che non vuol dire “ascesa”, ma esercizio spirituale, dal greco áskēsis). Però, che fatica! La schiena indolenzita riporta alla realtà. Più avanti in stagione, specie dopo le piogge, può diventare anche una condanna, nel senso che le malerbe spuntano ovunque, sono caparbie e prolifiche, quasi ineliminabili…

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Andando nel sole che abbaglia

Lascia sgomenti la canicola. D’estate qui la pioggia latita a lungo. L’afa ti prende alla gola, toglie il fiato, opprime. Caldo e umido. Le piante soffrono per il secco, si ammalano per l’umidità. Il sole impietoso strina le foglie degli alberi, gli steli delle anemoni giapponesi si lessano e piegano, i garofani dei poeti già trapiantati accartocciano le foglie a proteggersi. Il terreno che mi ritrovo, difficile da ammendare se non con sforzi titanici e su tempi biblici, forma crepe larghe e profonde, si cementa e spacca. Il prato selvatico è ingiallito e polveroso. Nell’aria si spande l’aroma speziato delle rose. Le ipomee sono floride al mattino, dopo son tutte un intrico di foglie vizze e flosce. Salvo le piante con foglie coriacee o cerose, quasi niente ha un bell’aspetto verde brillante: c’è il verde stinto e slavato, c’è il giallo venato di marrone, c’è il verde marmorizzato di giallo per le punture inferte da aracnidi e insetti, c’è il verde a chiazze bianche pulverulente per l’oidio. Tutto anela alla pioggia. La terra riarsa non aspetta che questo per una breve ma intensa seconda primavera – a second spring of beauty and youth. E il giardiniere, empatico, scruta il cielo terso e impetra pietà.

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